Si diceva che si chiamasse Donika. Viveva nella vecchia cascina, quella casa sgraziata e scura che ancora sopravviveva nello spazio silenzioso tra due quartieri, assieme all’ultimo lembo di campagna scampato al cemento. Si diceva che fosse la seconda di quattro figli in una famiglia straniera, una famiglia che nessuno sembrava conoscere bene in paese, ma la storia della sua vita era scolpita sul suo corpo ossuto, dipinta negli occhi grigi, enormi e vacui. Cosa avessero veduto o sopportato quegli occhi io non lo sapevo e volevo continuare ad ignorarlo. In ogni caso Donika, a scuola, non si era mai vista, quindi la sua stessa esistenza non era per me che un pettegolezzo, una voce.
Odiavo certe mattine invernali, nelle quali, per raggiungere la fermata dell’autobus, dovevo costeggiare la cascina dove Donika viveva, e la cosa mi era insopportabile.
In quelle pallide albe la nebbia calava sui campi, aggrappandosi al muro di cinta della cascina, su per il camino spezzato, tra le tegole malferme e le sgraziate croci delle pareti grigliate, celando forme note e distorcendole, ed in quei pochi passi la mia fantasia galoppava, plasmando nel nulla spettri deformi e costringendomi ad affrettare il passo. Quanto me ne vergognavo, poi, una volta raggiunta la rassicurante presenza del cancello della prima “vera” casa, il suo solido e moderno metallo verniciato di bianco, la confortante scritta “BUS” sull’asfalto e il caro... oh, caro cartello dell’orario delle corse!
Fu però in una di quelle mattine, proprio mentre scivolavo accanto alla cascina, che qualcosa mi toccò la spalla.
In quel breve tratto di strada io ero come una fisarmonica: partivo lasca, vuota, espansa e mi comprimevo, come il mio petto affaticato, man mano che quel vecchio mostro nero si faceva più vicino, poi, raggiunti i miei compagni, tornavo piena di aria, di vita e di pensieri gioiosi, lasciandomi alle spalle un disagio che somigliava ad un sogno appena dimenticato.
Quando sentii quel tocco freddo ero, quindi, così stretta nella morsa della paura che balzai in avanti e, voltandomi, temetti di trovarmi faccia a faccia con il Diavolo in persona.
Ma lì, davanti a me, c’era Donika, e nel suo sguardo il mio terrore si specchiava. Quei pozzi grigi, spalancati, stavano urlando come una bestia scannata, solo che non c’era nessun rumore al di fuori del mio respiro e del mio cuore impazzito.
Non avevo mai veduto Donika, ma sapevo, non so come, che si trattava di lei.
«Mi aiuterai?» disse con l’accento vago di una lingua dura e perduta. Non fui nemmeno certa di vedere le sue labbra muoversi. Sapevo solo che in quello sguardo sarei affogata, che i secondi sarebbero cresciuti come tumori, facendomi perdere ogni senso del tempo e dello spazio.
Ancora poco e quel terrore sarebbe passato in me, come una malattia.
«Camilla? Ehi... Camilla! Ma che fai?» gridò una voce lontana, lontanissima. Mi voltai. Vicino alla fermata c’era Sara, la mia amica del cuore, che mi chiamava, sbracciandosi. Il potere di quella voce innocente fu per me come un balsamo: non mi girai più indietro, ma affrettai il passo verso la salvezza, la civiltà, la vita, temendo che se mi fossi guardata alle spalle non avrei retto il peso di ciò che avrei visto.
Giuro e sarò sempre pronta a giurare che, in quel preciso istante, il nome di Donika fu chiamato da oltre il muro della cascina, da quelle che mi parvero cento voci maschili, basse e ringhianti, che rieccheggiarono nella morta campagna per un tempo interminabile. Era troppo: feci il resto della strada correndo.
«Che facevi, lì impalata?» mi rimproverò Sara, non appena la raggiunsi.
Mi offesi un poco, sforzando di ricompormi. «E che colpa ne ho? Quella matta mi ha chiamata, mica mi sogno di fermarmi apposta a parlare con lei!»
Sara spostò il capo e guardò oltre me, verso la cascina.
«Scusa, ma di chi stai parlando?» chiese, sospettosa. E il mio sangue rallentò ancora un poco.
«Donika… o qualcosa del genere, sai... la figlia del contadino che sta nella cascina vecchia, hai presente?»
Questa volta fu Sara ad impallidire. «Oh, che scherzo tremendo, Cami! Non sono cose da te!»
«Che intendi?»
«Lo sai che quella povera ragazza l’hanno trovata morta nel canale, due giorni fa! Non sono argomenti su cui mi piace scherzare, sospettano addirittura del padre… Oh! Ma che cretina che sono... lo sanno tutti in paese e di certo lo sai pure tu, e mi vuoi prendere in giro! Su, ecco l’autobus, andiamo, dai...»
Salii sul mezzo blu fissando i miei piedi, come se non mi appartenessero. Le voci scherzose e i saluti dei ragazzi saliti alla fermata precedente mi giunsero come uno di quei concerti che senti da lontano. Molli, vaghe, indistinte.
Morta. Donika era morta. Cosa avevo visto, dunque?
«Ma che fai?» mi sgridò ancora Sara. «Non ti siedi vicino a me?»
«No, scusa» mormorai. «Non mi sento molto bene, preferisco stare un po’ sola.»
«Sei ben strana, oggi» sentenziò la mia cara amica, decisamente offesa.
Presi posto sul penultimo sedile, appoggiandomi al freddo vetro dell’autobus, osai sbirciare oltre il muro della cascina, sulla stradina costeggiata dalla terra ruvida, ma di quel … fantasma non c’era traccia. Qualsiasi cosa mi avesse contattata non c’era più. Tremavo, quel giorno l’aria calda dell’impianto di riscaldamento non aveva effetto, la vita stessa non sembrava in grado di raggiungermi.
Poi, qualcuno mi toccò la spalla.
Urlai.
I vestiti di Donika grondavano acqua scura, lordando i sedili dell’autobus. Gli occhi erano spalancati tra le orbite nere, marcescenti. Ella disse ancora mi aiuterai? ma il suono era quello di un gutturale coro di spiriti, malvagi e sofferenti. Quando le sue dita, lunghe e scheletriche, pallide e umide come il ventre di un pesce, mi ghermirono il volto con velocità innaturale, la sua bocca, aperta a sfidare il naturale limite che lega mandibola e mascella, fu l’ultima cosa che vidi.
Poi galleggiai, appena sotto al velo di un’acqua torbida, fredda e immobile. Attorno e sopra di me ciuffi di erba scura, foglie morte, vermi silenziosi, ragni in attesa.
E nebbia.
Lui era là, il volto sfigurato da una rabbia cieca, priva di rimorso. Le mani ancora sporche di fango, sangue, escoriate e livide. Sangue, il mio sangue.
Ma chi ero io? Lo vidi e sprofondai in quell’acqua limacciosa sentendola riempirmi i polmoni, conoscendo per la prima volta la sensazione della morte e della paralisi totale. Soffocavo impotente, in un urlo silenzioso, mentre il volto di chi mi aveva ucciso sbiadiva, fissandomi, folle.
Sara raccontò che vaneggiai, stesa a terra, per almeno una decina di minuti. Non lo ricordo, ripresi conoscenza in ospedale, qualche ora dopo. In giro non si parlò d’altro che della mia crisi, poi, poco a poco, l’interesse scemò, il tutto fu liquidato come un attacco passeggero, nessun esame medico rivelò nulla e la mia vita tornò a fluire come prima.
Solo più lenta.
La cascina è stata abbattuta, anni fa, ma io non sono mai tornata integra.
Non dormirò mai profondamente, non siederò mai sicura, non respirerò mai sentendomi completamente calma, non sosterrò mai più a lungo uno sguardo, non nuoterò mai, né camminerò mai più da sola.
I Carabinieri arrestarono il padre di Donika qualche settimana dopo il mio viaggio nell’incubo, ma non ebbi bisogno di guardare i giornali per sapere che il volto di quell’assassino era lo stesso che avevo visto, attraverso gli occhi morti di Donika, da sotto il velo d’acqua di un canale.
Sussulterò sempre quando mi sfioreranno la schiena o le spalle.
La morte ha un tocco strano, che apre uno spiraglio sul buio, dal quale, sfortunatamente, non si torna mai completamente indietro.